giovedì 3 luglio 2014

"Leggende e racconti popolari del Veneto", di Dino Coltro

   L'eccellente Dino Coltro compila una raccolta di leggende e racconti popolari della regione veneta, raccogliendo il materiale da svariate fonti, non da ultime quelle orali. Nei racconti presenti si possono rintracciare gli archetipi disseminati in moltissime altre fiabe italiane e non solo, archetipi che dimostrano come la fiaba sia uno dei sostrati naturali su cui ha preso forma la mentalità collettiva dell'umanità.
   I racconti sono divisi in più gruppi: le Storie de la gente, piccoli racconti e semplici aneddoti; le Storie dei posti, che spiegano l'origine leggendaria di diversi luoghi; le Fole de cesa, leggende a sfondo religioso; per ultime, le Fole del filò, le più lunghe e complesse perché adatte ad occupare il tempo durante le fredde notti invernali in cui la gente si radunava a filò nelle stalle.
   Non meno importante è una corposa introduzione dell'autore, un excursus sulla storia del Veneto, sulle sue tradizioni letterarie e orali, sul filò e sul dialetto. Dino Coltro è una garanzia, e per uno studioso della tradizione regionale veneta questo libro è un ottima raccolta.

martedì 29 aprile 2014

"Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto", di Marisa Milani

   Questa volta niente copertina. Il libro in questione, Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto, è purtroppo fuori stampa e di difficile reperibilità. E' un delitto, visto che fin'ora è il libro più zeppo di informazioni che io abbia letto sulle credenze popolari venete riguardo alla stregoneria.
   Il volume nasce come ricerca sul campo effettuata dagli studenti della facoltà di Letteratura delle tradizioni popolari dell'Università di Padova, sotto l'egida della professoressa Marisa Milani. Armati di pazienza e registratore, gli studenti si sono avventurati per i paesini sperduti del Veneto, in un arco temporale che va dai primi anni '70 al '94, e hanno intervistato contadini, maestre, operai provenienti esclusivamente da un ambiente rurale. Le testimonianze raccolte forniscono un preziosissimo affresco sulla cultura contadina e le sue credenze su streghe, malefici, folletti e leggende.
   Il libro è giustamente intitolato tenendo fede alle parti in cui è diviso: la prima, riguardante la stregoneria, espone le credenze su cosa siano le streghe, cosa facciano, cosa sia il sabba, come proteggersi da esse, come trasmettono i loro poteri. Essenziali a riguardo sono le testimonianze sui pignatei (i "pentolini") che contengono letteralmente il potere della strega, e che ella trasmette alla sua prescelta assieme alla facoltà di agire magicamente. Interessanti anche le testimonianze sulla separazione dello spirito dal corpo e sulla magia tempestaria.
   La seconda parte riguarda il "piccolo popolo" veneto, sul quale a farla da padroni sono le anguane, i vari folletti come il salbaneo e il martoreo, e le varie vecchie terrifiche come la redodesa e la befana. La terza parte riguarda l'abbondante bagaglio folcloristico riguardante i morti: a riguardo, le storie più comuni parlano della processione che essi compiono nella notte tra l'1 e il 2 di novembre, tra Ognissanti e il giorno dei Morti.
   Le testimonianze raccolte sono un perfetto corollario a sostentamento di quella vasta produzione a tema stregonesco che per quanto mi riguarda ha trovato il suo apice in Storia notturna di Ginzburg: in Streghe, morti ed esseri fantastici si ritrova pressoché tutto ciò di cui parlava Ginzburg, compresi il volo notturno, l'uscita dell'anima dal corpo in forma animale, la processione dei morti.
  Oltre all'aspetto prettamente stregonesco, quello che ho apprezzato del libro è come dipinga una realtà contadina che ormai si è persa: la povertà, la rassegnazione di fronte alla morte e alle tragedie della vita, la fame, il rifugiarsi nella credulità e nella superstizione. Fanno commuovere i racconti delle mogli che parlano di come i loro "poveri mariti" abbiano visto il diavolo in persona, o l'orco, durante il viaggio di ritorno ubriachi dall'osteria, racconti che mostrano una tenera accondiscendenza, o come i testimoni ricordino con dolci parole rassegnate i loro avi defunti che hanno trasmesso loro i racconti raccolti nel volume.
  Si tratta di un lavoro certosino di raccolta che all'interno del volume è organizzato in sottosezioni, e in cui ogni testimonianza è corredata dal nome dell'informatore, l'età, la professione e la provenienza geografica.Un lavoro assolutamente imperdibile per ogni ricercatore di folclore veneto, al di fuori dell'ambiente accademico può essere goduto quasi esclusivamente da gente "nostrana", complice l'uso esclusivo del dialetto veneto nelle testimonianze.
   Segnalo la presenza "eccellente", tra gli intervistati, dello scrittore Mario Rigoni Stern.

giovedì 19 dicembre 2013

STREGONERIA VENETA: il forum + "Santi e contadini", di Dino Coltro


   Il blog è silenzioso da un bel po' di mesi. Estate e autunno sono volati come il vento, e letture e ricerche sono state un po' accantonate. Ho passato quest'ultimo anno in compagnia di un libro che ho centellinato giorno per giorno, e il cui titolo è Santi e contadini: lunario della tradizione orale veneta. L'autore, Dino Coltro, è stato uno scrittore e poeta veneto, precisamente dell'area veronese. Nato e cresciuto in una famiglia contadina, Coltro ha pubblicato una trentina di libri sulle tradizioni popolari venete, delle quali è stato un importante ricercatore e studioso. Ho detto "centellinato giorno per giorno" perché questo Lunario, com'è ovvio dal titolo, è una sorta di almanacco sui santi di ogni giorno dell'anno e sulle relative tradizioni. Prima di parlare pi approfonditamente del libro, però, vorrei menzionarne un altro a cui dedicherò presto un altro post: si tratta di Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto, a cura di Marisa Milani. Opera del corso di Letteratura delle Tradizioni Popolari di Padova, il libro è una raccolta di testimonianze orali raccolte dagli studenti della prof. Milani dagli anni '70 ai primi anni '90, riguardanti leggende e superstizioni sugli argomenti del titolo.
   La lettura di queste due opere mi è risultata fondamentale per inquadrare ulteriormente quel mondo che ormai da qualche anno vado esplorando e che, pur essendoci nato io stesso, durante gli anni dell'adolescenza avevo preso a guardare con distacco, quando non con sprezzo. E' il mondo rurale dei contadini, quella realtà che va scomparendo sotto l'inarrestabile, inevitabile avanzata della meccanizzazione e dell'urbanizzazione. E il mondo contadino altro non è che la terra madre in cui affonda le sue radici la stregoneria popolare che continuo a ricercare.
   Il risultato della lettura di questi testi è stata un'ispirazione profonda a raccogliere quanto più possibile rimane nella memoria popolare della mia regione. Un'intenzione di certo ambiziosa, ma che intendo portare avanti con quanta più umiltà possibile. E' per questo motivo che ho deciso di aprire un forum, Stregoneria veneta. Il suo scopo principale è proprio quello di creare un gruppo di ricerca principalmente sulla stregoneria regionale, ma non solo, perché troveranno spazio - e saranno incoraggiate - ricerche sulle tradizioni e le leggende in una panoramica molto più ampia.
   Il forum è vuoto per il momento. Non ho intenzione di forzarne la crescita. La mia speranza è che chi vi è interessato vi capiti e decida di contribuire con quanto sente opportuno. Il link è il seguente:


  Sono assolutamente benvenute proposte di collaborazione e domande per qualsiasi informazione: commentate sul blog, iscrivetevi al forum o mandatemi una mail a infame.osculum@gmail.com.


giovedì 2 maggio 2013

"Mitologia degli alberi", di Jacques Brosse

   Con questo Mitologia degli alberi Jacques Brosse indaga sulla centralità che l'albero ha avuto sin dagli albori dell'umanità per le culture europee e non. Giganti della natura, creature immortali agli occhi degli antichi, ma che tuttavia sembrano morire e risorgere di anno in anno con il passare delle stagioni, gli alberi hanno sempre rivestito un ruolo di fondamentale importanza nei culti precristiani, finendo poi per essere inclusi anche nei simbolismi del cristianesimo.
   Il saggio si presenta in sezioni che presentano ognuna un diverso archetipo incarnato dalla figura dell'albero. Tappa di partenza quasi obbligata è il topos dell'albero cosmico, esemplificato dall'Yggdrasill norreno e dall'autosacrificio per impiccagione attraverso il quale Odino ottiene la conoscenza delle rune (questo dell'impiccagione è un argomento su cui l'autore torna a più riprese, formulando interessanti teorie sul sacrificio umano e il suo significato).
   Si prosegue con l'albero come scala verso il cielo e la divinità: esemplare in questo caso è la betulla, albero su cui gli sciamani si arrampicavano durante i riti iniziatici. All'estasi in cui cadevano in queste situazioni viene attribuito l'uso di Amanita muscaria, fungo da sempre presente nel folklore europeo, quasi sempre in veste malefica.
   Ancora più interessante il capitolo dedicato alla quercia, albero del tuono, in cui viene sviscerata l'importanza nel mondo greco del santuario di Dodona. Si trattava di un luogo caratterizzato da una qualità rara: originariamente dedicato a una misteriosa divinità femminile che l'autore identifica con Dione, in seguito all'avvento del patriarcalismo acheo i due culti, maschile e femminile, hanno continuato a convivere con i relativi ordini sacerdotali. Correlata con la pioggia e i fenomeni celesti, la quercia era protagonista di diversi riti di controllo del tempo atmosferico. Collegato alla quercia, il vischio di Balder viene descritto come il seme del dio manifestato sull'albero: di origine celeste e nato dalla folgore, assumeva la valenza di fecondatore universale perché d'inverno sembra contenere tutta l'energia vitale dell'albero che lo ospita.
   Dioniso è protagonista della parte successiva, a mio avviso la più interessante. Viene in qualche modo accantonata l'immagine più tarda del dio come signore del vino e dell'ebbrezza, e si fa luce sulle sue origini più arcaiche in cui rappresentava una divinità - secondo Brosse - della linfa: un dio che muore e rinasce come gli alberi in inverno e in primavera, come la linfa che d'inverno si ritira nelle radici per poi riprendere a circolare vitale in primavera. Il delirio a cui il culto dionisiaco porta non è quindi propriamente assimilabile all'ebbrezza da vino, ma si tratta di qualcosa di ben più viscerale, un'esaltazione della vita attraverso la follia e il riconoscimento della morte.
   Figure di morte e rinascita sono affrontate nel capitolo quinto, in cui sono protagonisti Attis, Tammuz, Adone e Osiride. Rappresentati dal pino e dalle conifere in generale, sono divinità che incarnano l'immortalità, che offrono il loro sangue alla terra per renderla fertile: non è un caso che si tratti di figli/fratelli/amanti della figura della Grande Madre, la quale in seguito piange la loro morte e si adopera per far ottenere loro nuova vita. Rientra pienamente nell'argomento la figura dell'androgino, immortalata in Agdistis (una sorta di proto-Cibele) ed esempio di divinità "originaria" perfetta, che si genera da sé: la ierogamia, il matrimonio tra la dea e il dio, non è altro che una rappresentazione del ricongiungimento dei due poli.
   Il libro continua trattando di alberi connessi a figure mitologiche specifiche (come filira/tiglio, Ciparisso/cipresso, Pitis/pino nero) per poi spostarsi in epoca più moderna, in cui le divinità sono scomparse e il bosco non è più bosco sacro, ma dimora di creature soprannaturali potenzialmente pericolose come fate e streghe, ultimi rimasugli che incarnavano la paura che prendeva possesso degli estranei alla vista di un luogo sacro e incontaminato come lo erano le antiche selve vergini dell'Europa. In fate e streghe si ha un riflesso delle antiche divinità del destino, o degli spiriti della terra e delle acque, e ne è una testimonianza la bacchetta e il fuso di cui si fregiano. Simbolo del potere sulle forze della natura, la bacchetta è uno strumento prettamente maschile, fallico, e il suo potere, come quello della scopa, non derivava da altro che dall'albero da cui era ricavata.
   Palesemente influenzato da Frazer e da Graves, il saggio riesce a dire molto mantenendo l'enorme campo d'indagine del primo, ma evitando in gran parte i voli pindarici del secondo. A lettura ultimata, si rimane con una certa sensazione d'amarezza riguardo a tutto ciò che si è perso: i nostri boschi ormai non sono più delle entità misteriose e terrorizzanti, non incutono più reverenza e terrore; hanno smesso di fornire protezione e sostentamento grazie ai frutti della terra ma, al contrario, sono essi oggi ad avere bisogno di cura e protezione.

giovedì 24 gennaio 2013

"La magia nel mondo antico", di Fritz Graf

   La magia nel mondo antico è una monografia sulla ritualità magica d'epoca greco-romana. Aspetto focale del saggio è, a mio avviso, il rapporto che il Graf descrive tra la religione ufficiale e la pratica magico-stregonesca, aspetto cruciale che non riguarda solamente la magia in epoca antica, ma la stregoneria in ogni sua localizzazione spaziale e temporale: religione e pratiche magiche sono legate, ma sono come due linee ondulatorie che si intersecano in certi punti mantenendo però dei percorsi separati.
   La magia e la stregoneria si nutrono della religione ufficiale: ne invocano le divinità, ne ricalcano i rituali; ma se nella seconda, come specifica il Graf, è tutto eseguito in una prospettiva "di elevazione" - un movimento verso l'alto, verso i cieli - nelle prime questo impulso è sovvertito. Ecco quindi che la strega opera quindi "verso il basso", verso le potenze ctonie: è strettamente legata al mondo, alla terra, alle regioni liminari. Non solo: mentre la religione opera in una prospettiva collettiva, sociale, la strega agisce da sola, opera ai margini della società.
    Non stupisce quindi che nel mondo della polis, fortemente gerarchizzato e comunitario, un personaggio che opera in una prospettiva di isolamento sia visto di cattivo occhio, e la stregoneria, in effetti, nella Grecia antica era condannata apertamente. Simile era la situazione a Roma, nonostante l'accusa di stregoneria non fosse grave quanto lo fosse in Grecia. E' una situazione che presenta dei paralleli palesi con l'epoca dell'Inquisizione: le pratiche stregonesche erano - e sono - legate al cristianesimo, ma sono giudicate eretiche perché non conformi all'ortodossia. Pratiche come quelle stregonesche, che esulano dalla morale comune e sovvertono il senso di rassicurazione che la religione conferisce, spaventano, e sono condannate. La strega, figura storicamente collocata in una posizione ambigua all'interno della comunità, è per questo temuta.
   Di questo il Graf fornisce un bel ritratto nel capitolo dedicato alle rappresentazioni letterarie della stregoneria: ecco quindi la Eritto descritta da Lucano, una strega tessala (e quindi straniera, vista la consuetudine di considerare la magia proveniente dall'est, soprattutto dalla Persia), negromante, seguace di Ecate, che pratica i suoi riti divinatori nella piena oscurità della notte, una donna strettamente legata alla morte e al mondo infero tanto che l'erba su cui cammina avvizzisce al solo tocco dei suoi piedi.
   Il ritratto di Lucano è ovviamente fittizio, influenzato com'è dalla visione popolare della figura della strega, ma è inutile negare che le caratteristiche di Eritto sono assolutamente plausibili, soprattutto per quanto riguarda la connessione con le potenze ctonie e con la pratica del "male".
   A questo proposito va citato quello che costituisce il fulcro del libro, ossia il capitolo dedicato alle defixiones: si tratta di maledizioni, legamenti (su questa parola Graf si sofferma a lungo, analizzandone i corrispettivi linguistici greco-romani), formule incise soprattutto su lamine di piombo per cinque scopi principali:
- nuocere a degli avversari in campo processuale;
- effettuare legamenti amorosi;
- nuocere in contesti agonistici;
- nuocere a calunniatori e ladri;
- nuocere a dei rivali in campo economico.
   L'utilizzo delle defixiones era estremamente diffuso, ciò che impedisce di negare che le maledizioni e i legamenti amorosi siano sempre stati parte integrante delle pratiche stregonesche. Anche in questi casi le potenze ctonie accorrevano in aiuto: le lamine venivano nascoste nelle tombe, in modo che il morto fungesse da "messaggero" tra il mago/stregone e le potenze a cui ci si rivolgeva. Si chiamavano in causa Persefone, Demetra, Plutone, Ecate, Ermes, qualunque divinità che avesse una natura ctonia, che fosse collegata con il sottosuolo; e in effetti altri posti favoriti in cui nascondere le defixiones erano i pozzi, le grotte, il fondo del mare, anche questi luoghi sotterranei, in cui la lamina contenente la maledizione aveva ben poche possibilità di essere rinvenuta.
   Molto interessante la disamina della terminologia specifica, che distingue nettamente tra i vari tipi di rituali e gli scopi che si voleva ottenere, nonché tra i vari tipi di magia: abbiamo carmi, veneficii in terra romana, agogai, diabolai, philtrokatadesmoi, pharmakos in terra greca, più tanti altri termini che ad orecchie contemporanee possono suggerire lo stesso significato, ma che allora erano invece ben distinti.

sabato 17 novembre 2012

"L'uomo selvatico", di Massimo Centini

    Quella dell'Uomo Selvatico è una figura archetipica presente nel folclore popolare sin dal medioevo. Nella maggior parte dei casi si tratta di una sorta di buon selvaggio, un personaggio che non si colloca esattamente nella società ma ne sfiora i margini, insegnando ai contadini e ai pastori i segreti dell'allevamento e della realizzazione di prodotti alimentari, soprattutto caseari. E' una creatura che, come tutte le figure che sfuggono ai criteri precisi di ciò che è considerato socialmente accettabile (si tratti di streghe, pazzi, storpi, ritardati) ha sempre ricevuto un trattamento ambiguo: ai suoi tratti benevoli si sono quindi affiancate le caratteristiche del trickster o, nei peggiori dei casi, di un primitivo stupratore di donne e ladro di bambini.
   Quello che Centini fa nel suo saggio è raccogliere le caratteristiche dell'Uomo Selvatico dalla tradizione popolare, effettuando una disamina dei motivi per cui il mito del buon selvaggio, di una figura che riporti ad un'epoca precedente all'organizzazione sociale in cui il contatto con la natura si è affievolito, sia così preponderante nelle leggende dell'arco alpino (e non solo). Se le considerazioni tratte riguardo questo punto sono sicuramente valide, lascia un po' perplessi il divagare del resto dell'opera, che affianca all'Uomo Selvatico altri personaggi assimilabili, come il lupo mannaro o i giganti. Non che le riflessioni di Centini siano banali, intendiamoci, solo che il tirare in ballo i berserkir, la Caccia Selvaggia, la processione dei morti e mille altri topoi folclorici che hanno solo deboli connessioni con la figura che dà il titolo all'opera priva il saggio di un preciso punto focale, con la conseguenza che spesso e volentieri ci si chiede da dove si sia partiti e dove si voglia arrivare.
   Sinceramente evitabile, infine, l'ultimo capitolo sullo yeti e la bestia del Gevaudan.

domenica 30 settembre 2012

"Storia notturna: una decifrazione del sabba", di Carlo Ginzburg

   Storia notturna è un libro che è stato più volte criticato, tanto che Ginzburg si è visto piombare addosso non poche accuse di "Murrayismo" dai suoi colleghi accademici. Il motivo sta nel fatto che Ginzburg, nel tentare di decifrare il ritratto del sabba, vede negli studi della Murray (precisamente il famoso The Witch-Cult in Western Europe) un nocciolo di verità. In realtà, Ginzburg è ben lontano dall'essere un murrayano, visto che critica giustamente il metodo lavorativo di questa. Quello che invece adotta, e sviluppa in quest'opera, è l'idea di prendere sul serio le confessioni delle streghe trovando un filo comune su cui non si fossero ancora incrostati i luoghi comuni del sabba nati a causa delle pressioni degli inquisitori.
   Ecco che emerge pian piano, grazie al meticoloso lavoro di documentazione, un doppio filone: da una parte abbiamo i cortei notturni a cui streghe e stregoni affermano di recarsi in sogno, capeggiati dalla figura di una misteriosa divinità femminile chiamata con diversi nomi (Abundia, Richella, Oriente, ma soprattutto Erodiade); dall'altra, abbiamo le processioni dei morti, che si scoprono essere collocate in precisi momenti temporali appunto legati al culto - o al timore - dei defunti.
   La dea notturna - spesso a capo della Caccia Selvaggia o del "gioco", dalla quale le streghe apprendono i segreti delle erbe e a alla quale rendevano omaggio, generalmente sempre dopo essersi recate al luogo del sabba a livello di "anima", separate dal corpo e a cavallo di animali, o trasformate loro stesse in animali - era un'entità presente a livello paneuropeo e oltre, i cui strascichi si intravedono ancora oggi in figure come quella della Befana. La processione dei morti era invece percepita in maniera fisica, e Ginzburg fa notare che queste "anime" non fossero altro che persone in carne e ossa mascherate da animali o da demoni, visti dagli spettatori esterni come e veri e propri spiriti.
   Questo ritratto del sabba e dei cortei di defunti è in realtà solo il punto di partenza del libro. Ginzburg, per nulla intimidito dalla comparazione, svela numerose connessioni tra questi voli notturni: dietro ai viaggi al seguito delle fate in Scozia, o delle donne di fuori in Sicilia, o di Perchta in ambiente germanico, c'è sempre un'esperienza di tipo estatico. Allargando ancora il campo verso le steppe eurasiatiche, capiamo che dietro a queste esperienze si nascondono dei rimasugli di sciamanesimo derivanti da epoche molto, molto remote. Ne emerge un ritratto affascinante di un Europa legata da fili che si sono intrecciati nello spazio e nel tempo in maniera indefinibile ma palese, in cui la riverenza verso i morti e il viaggio onirico verso il sabba cela la stessa matrice iniziatica: i viaggi astrali come "piccola morte", morte necessaria per accedere a un'iniziazione le cui origini sono ormai perse nel tempo.
   Ecco allora chiarirsi anche la natura dei vari partecipanti alle battaglie notturne per la fertilità, combattute da benandanti, da lupi mannari, da mazzeri, da kresniki: sono tutti personaggi situati in una posizione liminale, che per un motivo o per l'altro (essere nati con la camicia, essere ai margini della società, essere nati in periodi particolari) stanno nel mezzo, tra il mondo dei viventi e quello dei morti.
   Ginzburg non cerca di razionalizzare gli elementi emersi dalle sue ricerche: quello che gli interessa è andare alla ricerca delle radici folkloriche e mitologiche delle testimonianze sul sabba. Le conclusioni su quello che accadesse davvero a questi personaggi che entravano in estasi, sul motivo per cui i resoconti dei loro viaggi sono tutti così simili, spettano solo al lettore.
   Un libro illuminante, che non ha paura di gettare luce su un aspetto controverso della stregoneria, e che forse è destinato a rimanere uno dei più misteriosi. Consigliato a tutti, soprattutto a chi voglia scardinare concetti ormai inculcati a forza dalla wicca: le streghe della prima età moderna non veneravano alcuna divinità pagana, né Diana, né Afrodite, né Ecate, né tantomeno Aradia - questi solo alcuni nomi che sono stati attribuiti alla dea notturna dagli inquisitori incapaci di ricondurla a una figura a loro nota; le streghe partecipavano al sabba, in un modo o nell'altro, ma non si trattava di incontri di piacere in cui si "venerava la natura". Sotto tutte queste testimonianze si intravede un fondo oscuro, fatto di sacrificio, di morte e rinascita, un sostrato che va indietro fino ai tempi in cui l'uomo combatteva ogni giorno una battaglia per la sopravvivenza.