giovedì 30 agosto 2012

"La Dea Bianca", di Robert Graves

   Mi trovo un po' in imbarazzo a commentare un libro che, nel bene e nel male, ha fatto storia. Partiamo dal sottotitolo: "Una grammatica storica del mito poetico". Che significa? Graves sostiene fondamentalmente che tutta la poesia (o perlomeno la poesia di qualità), sia un atto d'amore verso l'archetipo della divinità femminile, o che sia da ella ispirata. Graves non si limita a considerarla un archetipo, ma pare trattarla come una vera e propria divinità, la Dea Bianca, adorata anticamente a livello europeo e medio-orientale prima che le invasioni indoeuropee e dei cosiddetti "popoli del mare" ne sovvertissero il culto in seguito all'importazione di una società patriarcale. La tesi di Graves afferma che questa Dea Bianca era adorata con diversi nomi, ma che conservava le caratteristiche di base innanzitutto di dea lunare, e in secondo luogo di dea triplice (o quintupla, a seconda dei punti di vista).
   Da queste premesse Graves inizia a dipanare una rete sterminata che collega tutte le mitologie del bacino del Mediterraneo e oltre, con connessioni tra di loro spiegate con minuziosa precisione. Se la passione dietro la redazione del libro è certamente genuina, salta subito all'occhio che Graves pare essersi fatto prendere dall'entusiasmo di un'ispirazione troppo grande per essere espressa razionalmente. E in effetti il libro è confuso, tortuoso, a tratti opprimente. Non lascia respiro, anche per via della cultura enciclopedica dell'autore che presupporrebbe non poche conoscenze in merito di storia, mitologia, etimologia e letteratura.
   Le informazioni e le deduzioni sono tante, impossibili da ricordare. A lettura terminata rimane un quadro generale dei punti principali della mastodontica tesi che Graves sostiene. I voli pindarici che l'autore compie per giustificare questa o quell'etimologia, questo o quel culto, per spiegare un certo mito e il suo retaggio in tempi successivi, lasciano letteralmente a bocca aperta, se non altro per l'estrema linearità con cui Graves giunge alle sue conclusioni. Ogni risposta trova una sua domanda precisa, scovata il più delle volte tramite corrispondenze etimologiche. Ma un'autore che pretende di avere tutte le risposte, quanto può essere considerato credibile? Fin dove è lecito dare fiducia alla risoluzione di misteri millenari risolti tramite il potere dell'"ispirazione poetica"?
   Non sono pochi i punti che mi hanno fatto storcere il naso. In primo luogo, se l'affermazione di un sistema patriarcale con conseguente ridimensionamento dei ruoli femminili è senz'altro plausibile, la riduzione di una moltitudine di dee, complesse e sfaccettate, a espressione di una singola dea è troppo riduttivo. Non intendo certo screditare la figura della Grande Madre, archetipo senza dubbio preponderante in moltissime culture arcaiche e non, ma è troppo prepotente la pretesa di Graves di ricondurre talmente tante dee alla sua Dea Bianca, dee che spesso hanno poco a vedere con le caratteristiche che egli stesso attribuisce a tale figura.
   Mi ha lasciato ugualmente perplesso la rivelazione dei misteri contenuti nell'alfabeto Beith-Luis-Nin, la cui rivelazione è un processo estremamente complesso che si spande secondo tutto il libro. Secondo Graves, la serie di lettere nascondeva un calendario che criptava un corpus di credenze e di cerimonie in onore della Dea Bianca. Anche in questo caso, le spiegazioni date da Graves per un argomento tanto complesso e astratto sono troppo certosine per poter essere accolte a braccia aperte.
   Sono moltissimi gli altri punti toccati (labirinti, minotauri, sillabe e lettere divine, serpenti, culti misterici), molti dei quali degni certamente di essere approfonditi se non altro per trarre delle conclusioni personali, ma prendere il testo come oro colato è certamente sbagliato. Lo sconsiglio vivamente ai neofiti della mitologia e del paganesimo storico, innanzitutto per il livello di conoscenze richiesto dal testo, e in secondo luogo per il rischio di fornire informazioni fuorvianti che dovrebbero essere vagliate da una ricerca personale.
   Eppure, eppure... sono lontano dal bocciarlo. Pur andando preso con le pinze, il testo è un'appassionata dichiarazione d'amore alla mitologia, alla cultura, a un mondo perduto che forse non è mai esistito nel modo in cui è dipinto dalle parole di Graves, ma che di certo risulta affascinante e nostalgico. La caduta dei sistemi matriarcali (questione che non tira necessariamente in ballo la Dea Bianca) e le considerazioni che l'autore fa  negli ultimi capitoli riguardo il futuro del culto del femminino lasciano l'amaro in bocca quando guardiamo alla situazione odierna. Forse è per questi motivi che il testo è caduto nelle grinfie della wicca e del neopaganesimo, diventandone la Bibbia indiscussa. Un destino che non si meritava.
   Insomma, difetti o meno, questo mastodontico saggio va preso per quello che è: letto con una sufficiente dose di conoscenze alle spalle in modo da evitare di esserne eccessivamente influenzati, è un testo che nonostante tutto dà ispirazione a ricercare, a conoscere, ad acculturarsi, a scavare per scoprire quali sono le nostre radici. Meglio leggerlo come un romanzo, e meravigliarsi di fronte alla sterminata erudizione di Graves, al senso di mistico terrore e di piccolezza dell'uomo che il offre il suo ritratto del sacro.

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